Com, coma, come

(Cum, cuma, cume)

di Bruno Villata

L’Arvista dl’Academia V – Marzo 1996

Leggendo i testi scritti in piemontese moderno capita spesso di trovare tre forme, com, coma e come, in corrispondenza dell’avverbio latino quomodo. Tale ridondanza ci è parsa piuttosto interessante e non ha mancato di  stupirci perché, a volte, queste tre varianti sono usate senza seguire le regole fonosintattiche che stanno alla base delle parlate pedemontane.

Come altre volte, per avere una visione più chiara del problema, si è deciso di inquadrare la questione dall’inizio. Tenendo conto delle caratteristiche della lingua piemontese che, nei lemmi di origine latina, tende a conservare solo le vocali in sillaba tonica e lascia cadere quelle delle sillabe atone, soprattutto se protoniche e finali, pensiamo che nessuno dovrebbe avere difficoltà ad ammettere che la forma più genuina dovrebbe essere com (lat. quomodo).

E non dovrebbe sorprendere neanche la sparizione del suono labiale /u/ dopo quello velare /c/, perché questa è una particolarità comune a tutte le lingue romanze ufficiali. A tale proposito si pensi a como (port., sp.), comme (fr.), come (it.) e cum (rum.) lemma quest’ultimo che suona come in piemontese.

Dato che il dileguo delle vocali atone finali latine è un fenomeno del tutto normale in piemontese, sarebbe difficile giustificare dal punto di vista etimologico la presenza della A di coma.

Infatti sappiamo che in fine di parola l’unica vocale atona latina che si mantenga in piemontese è la A (es. magna, cioenda, merenda, fnestra) che però, come detto, non è presente nel lemma di partenza.

Stando così le cose, è chiaro che in coma la A finale non è originale, e almeno secondo me, dovrebbe derivare dalla sincrezione di com con il pronome pronome verbale di terza persona a che spesso segue com. Essendo atono questo pronome si appoggia alla parola che lo precede (com a finirà, ch’a fasa com a veul…) oppure anche al verbo che segue (chila a veul parèj, chiel a travaja da Zan…).

Forse perché avevo sempre parlato il piemontese senza mai scriverlo o leggerlo, quando abitavo a Torino non avevo mai notato il lemma coma, che invece mi ha colpito non appena mi sono capitati tra le mani dei testi scritti. E così, credendo che fosse una forma letteraria genuina, all’inizio del mio apprendistato forse devo averla usata qualche volta anch’io, cosa che ora non farei più adesso perché quando non è possibile usare com, preferirei far ricorso a come, forma che considererei più schietta ed anche più bella. L’uso di come invece di com sarebbe più appropriato quando tale lemma viene a trovarsi davanti ad una parola che inizia per consonante. Si pensi a: it parle come mi, a l’é grand come sò pare, a veulo travajé come ti…

Evidentemente, dato che i dizionari dell’Ottocento riportano solo com, si dovrebbe supporre che come e coma siano delle forme più recenti. Anche se non riportati dai dizionari del secolo scorso consultati, pensiamo che come dovrebbe essere la forma più schietta e quindi da preferirsi a coma e ciò non solo perché la lingua piemontese presenta un termine equivalente: me, usato nella lingua parlata e in quella scritta, e che appunto dovrebbe costituire una forma contratta di come stesso.

Molto vicina a come è poi anche la forma monferrina cmè, nella quale possiamo notare il fenomeno più raro dello spostamento dell’accento latino e la conseguente sparizione di quella che era la vocale tonica.

Visto che siamo sull’argomento, sarebbe opportuno esaminare il caso in cui com precede l’articolo determinativo maschile ël e quello indeterminativo un. Anche in questi casi la grafia non ci sembra costante.

Basandoci sulla pronuncia attuale, nel secondo caso sarebbe meglio scrivere come ‘n (esempi: bianch e ross come ‘n pom, a l’é stait ambajà e sensa paròle come ‘n badòla, grass come ‘n crin), mentre, sempre volendo seguire la  pronuncia, nel primo caso si dovrebbe notare com ël (esempi: brav com ël sol, bianch com ël lait…).

Non pensiamo proprio che quanti scrivono il piemontese seguano sempre questi modelli. Fino ad oggi anche noi eravamo indecisi se notare i vari sintagmi in questo o in quel modo, ma a partire da questo momento i nostri dubbi si sono dissipati. E speriamo che queste nostre osservazioni possano essere utili anche ad altri. Infatti ci sembra che la presenza di tre forme per esprimere una sola parola non costituiscano una ricchezza della lingua, soprattutto se tali forme non si adeguano alle regole precise della fonosintassi.

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