L’identità del piemontese nell’ambito delle lingue romanze ufficiali

Introduzione

L’argomento scelto: “l’Identità del piemontese nell’ambito delle lingue romanze ufficiali” potrebbe sembrare un titolo un po’ stravagante, forse anche presuntuoso, e potrebbe perfino richiamare alla mente di qualcuno la famosa favola “rana rupta et bos”. Per togliere ogni dubbio, vorrei subito chiarire che la mia intenzione non ha nulla in comune con l’incauta protagonista della vecchia favola appena citata, perché sono perfettamente conscio che, come tutte le altre lingue regionali d’Italia e molte lingue minoritarie del mondo, non solo il piemontese non può competere con altri idiomi più fortunati, ma si trova addirittura in uno stato molto critico¹.

Il mio scopo è quindi semplicemente quello di cercare di spiegare in che cosa consista l’identità del piemontese, già riconosciuta, anche se indirettamente, da Dante stesso, quando a conclusione del suo esame dei vari volgari italiani, definisce quello parlato a Torino e ad Alessandria “turpissimum”, quindi indegno di rappresentare la lingua letteraria tanto vagheggiata².

Le prime testimonianze scritte in volgare piemontese dovrebbero comunque risalire ad un’epoca ben anteriore a quella in cui visse Dante. Molti infatti le riconoscono nei Sermoni Subalpini, una raccolta di 22 prediche risalenti alla fine del XII secolo, il cui manoscritto si trova nella Biblioteca Nazionale di Torino. Va anche detto che, però, non tutti concordano nel ritenere piemontese la lingua dei Sermoni³. Tuttavia in questi ultimi anni in uno studio su questo argomento ho potuto constatare che la vicinanza tra la lingua dei Sermoni Subalpini e il piemontese antico e moderno, è comunque molto sorprendente4. Nel prezioso documento dei Sermoni Subalpini, i testi in volgare seguono e spiegano brevi passi in latino, il che è in perfetta sintonia con le decisioni prese dai vescovi nel Concilio tenutosi a Tours nell’813 di “transferre easdem omelias in rustica romana lingua quo facilius cuncti intellegi possint”5. Dato che in quel periodo il Piemonte odierno faceva parte dell’Impero di Carlo Magno, tale data potrebbe costituire un chiaro indizio che già a quell’epoca, anche in terra pedemontana, il popolo usava comunicare in una lingua diversa dal latino.

A proposito delle lingue regionali, va detto che parecchi le chiamano dialetti e associano a questo termine tutte quelle connotazioni negative sorte dopo l’unificazione quando si cercò di realizzare quell’ideale romantico, proprio allo stato-nazione secondo cui, come ben scrisse il Manzoni, ogni paese doveva essere: uno di lingua, d’altare / di memorie, di sangue di cor…6

In base a tale ideale tutte le espressioni linguistiche diverse da quello che era l’idioma ufficiale furono considerate dialetti, cioè parlate inferiori, indegne di essere usate e tramandate. E questo disprezzo portò persino a creare il falso postulato secondo cui i giovani che parlavano un dialetto non avrebbero mai potuto imparare bene l’italiano e tantomeno apprendere le lingue straniere.

Principi simili, del tutto privi di basi scientifiche, regolarono le politiche linguistiche di molti stati fin verso gli anni Settanta, tanto in America, dove si mirava al mito forse ormai tramontato del “melting pot”, che nella vecchia Europa. Solo in questi ultimi tempi le ricerche di sociologi, psicologi e linguisti hanno dimostrato esattamente il contrario, e cioè che quanti conoscono bene la lingua parlata a casa, qualunque essa sia, possono apprendere meglio le altre7.

E tale è anche il risultato di un’inchiesta che avevo condotto nei primi mesi del 1981 presso oltre 500 giovani italo-montrealesi trilingue. In base ad essa si è potuto rilevare che, ad una migliore competenza nella “langue du foyer” corrispondeva una media superiore in matematica ed una maggior disponibilità di concetti tanto in francese che in inglese, lingue che facevano parte del repertorio dei 527 testimoni considerati8.

Ritornando comunque ai dialetti italiani bisogna dire che, ormai stanno languendo e ben difficilmente potranno riprendersi. Infatti il loro uso è sempre più ridotto e si sta restringendo ad un numero di ruoli, di domini e di situazioni sempre più limitato9. Eppure queste parlate vantano la stessa origine delle lingue romanze ufficiali e non sono affatto la corruzione di alcuno di questi idiomi, come molti credono ancora.

Oltre che da documenti risalenti ai secoli passati, tale affermazione è corroborata dall’esistenza di strutture grammaticali, di unità lessicali, di associazioni proprie a ciascuna di queste parlate, e pure da leggi fonetiche ben precise, in base alle quali si può facilmente collegare il loro lessico a quello latino10.

Per quanto non molto numerosi, i documenti in lingua piemontese sono presenti in tutte le epoche a partire dal XII secolo ai giorni nostri, quando si assiste ad un fenomeno esattamente opposto a quello del passato. Infatti, ora che ben pochi usano parlare piemontese, è aumentato il numero di quanti lo scrivono, mentre un tempo, quando tutti lo parlavano, quasi nessuno lo scriveva.

Il primo linguista che abbia presentato il piemontese è stato Bernardino Biondelli, il quale, nel 1853 aveva diviso le parlate di questo ceppo in tre gruppi: il canavesano, il monferrino ed il torinese11. Essendo la varietà più prestigiosa perché usata nel capoluogo e dai duchi di Savoia stessi, il torinese era anche la lingua letteraria e in quanto tale alcuni studiosi lo chiamarono appunto piemontese illustre.

D’ora in avanti in questo testo, quando parlerò di piemontese, mi riferirò appunto alla varietà parlata a Torino. E per poter meglio porne in risalto l’unicità presenterò alcune sue caratteristiche fonologiche, grammaticali e lessicali e le metterò a confronto soprattutto con le corrispondenti forme francesi e italiane, lingue vicine e che da sempre hanno esercitato una forte pressione sul piemontese.

Vocalismo

Un semplice confronto del sistema vocalico delle tre lingue, rivela subito che il piemontese possiede una gamma di suoni tonici superiore a quella dell’italiano e del francese. E ciò appare anche dai loro triangoli vocalici presentati qui di seguito:

Vocali toscane
i u
é o
è ò
a
Vocali francesi
i ü u
é o
è ö ò
a
Vocali piemontesi
i ü u
é ë o
è ö ò
a

Come si può vedere il piemontese presenta una serie completa di vocali mediane, ignote al toscano e che il francese conosce solo in modo parziale in quanto manca del suono della /ë/. Quanti in passato si sono occupati del piemontese, in genere avevano accennato alla presenza di suoni simili a quelli francesi, ma non avevano mai sottolineato l’esistenza di questa /e/ mediana tonica che, a mio avviso, è molto importante perché, se questi suoni mediani sono da ascriversi al sostrato gallico, tale sostrato è più completo in piemontese che non in francese. A dire il vero molti hanno anche confuso il suono di questa /e/ mediana con quello della /e/ muta francese, presente peraltro anche in piemontese. Si pensi a: i vëdoma, sbërgnaché, sbërgnachëtta (nell’ultimo esempio la prima ë è atona e la seconda tonica).

Ma mi sembra che non sia appropriato paragonare un suono tonico come quello della /ë/ di bërgna, sëcca, stëcca, spëssa… con quello che il francese usa rappresentare con una /e/ muta come avviene in lemmi quali: le, livre, mener. A proposito del suono della /e/ mediana va detto che, a parte il romeno, esso non appare in nessuna delle lingue romanze ufficiali. Per il rumeno si pensi infatti a lemmi quali: cît, gît, România… Da essi si vede però che, dal punto di vista etimologico, questo suono comune alle due lingue ha origini diverse12.

Per quanto concerne il suono /ö/, in piemontese sempre notato EU e non OEU o OE come in francese13, bisogna dire che in torinese esso si trova solo in corrispondenza di una O aperta del latino volgare (o breve in latino classico) in sillaba libera, mentre in francese si trova anche in corrispondenza della O chiusa del latino volgare (lunga in latino classico) sempre in sillaba aperta14.

Si pensi per esempio a:

lat. novu> fr. neuf piem. neuv it. nuovo;
lat. focu> fr. feu piem. feu it. fuoco;
lat. opera> fr. euvre piem. euvra it. opera;

e poi a:

lat. flore> fr. fleur piem. fior it. fiore;
lat. hora> fr. heure piem. ora it. ora;
lat. dolore> fr. douleur piem. dolor it. dolore;
lat. nepote> fr. neveu, piem. nod it. nipote15.

In piemontese la O chiusa latina si svolge in modo diverso da quello francese e toscano. Infatti benché la grafia (dolor/dolore, fior/fiore…) sembri indicare una identità di suoni in piemontese ed in toscano, questa impressione dovrebbe svanire se si considera che il segno O sottintende dei suoni differenti, cioè /o/ in toscano e /u/ in piemontese16.

Dagli esempi appena presentati si può anche dedurre che, sempre a proposito delle vocali toniche latine, il piemontese si distingue tanto dal francese che dal toscano per quanto concerne gli esiti della O chiusa del latino volgare (O lunga classica). Così, se in sillaba aperta detta vocale dà un suono /ö/ in francese (nepote> neveu, flore>fleur, hora>heure), e /o/ in toscano (dolore, fiore, ora), in piemontese si svolge in /u/, notato O (anvod /nod, fior, ora…).

Il piemontese dimostra questa stessa particolarità quando la O lunga in sillaba libera si trova sotto l’influenza di una I. Si pensi a lemmi quali: lat. noce> fr. noix, piem. nos, it. noce; lat. voce> fr. voix, piem. vos, it. voce. E si potrebbe estendere questa stessa considerazione ai casi in cui la O aperta del latino volgare si trova sotto l’influenza di una I (lat. nocte > fr. nuit, piem. neuit, it. notte; lat. coctu > fr. cuit, piem. cheuit, it. cotto; lat. octo> fr. huit, piem. eut, it. otto)17.

Un altro caso interessante è quello della E chiusa del latino volgare, in corrispondenza di una I breve o di una E lunga classiche. In sillaba aperta, questa vocale tonica dà in piemontese un dittongo EI (pilu>pèj, me(n)se> mèis), resta tale quale in toscano (pelo, mese), mentre in francese giunge a un sono /ua/ notato OI (poil, mois)18.

Benché ritengo che non sia necessario portare altri esempi per provare l’originalità del vocalismo piemontese, oltre alla U lunga latina che ha dato un suono /ü/ velare (muru> mur), vorrei ancora ricordare che, in piemontese le vocali atone tendono a sparire. E questo capita all’inizio, all’interno e in fine di parola. La sola vocale che non segue questa tendenza è la A, che si solito si conserva soprattutto in fine di parola. Per averne qualche esempio si pensi a bzògn (it. bisogno, fr, besoin); calié (lat. caligarius); vnì (it. venire, fr. venir), fé (lat. facere), dì (lat. dicere), ruso (lat. aerugine), reusa (lat. rosa)19.

Se questa tendenza a dileguarsi delle vocali delle vocali atone, pro e post-toniche, sembra avvicinare il piemontese (ex. dì, vni, fé) al francese (fr. dire, venir, faire), va detto che essa lo allontana dal toscano (venire, fare, dire) e dalle altre lingue romanze, siano esse occidentali (port. dizer, fazer, venir; sp. venir, decir, hacer), o orientali (rom. a zice, a vine, a face). Come si può notare dagli esempi appena citati, il piemontese è la sola lingua che presenti il dileguo delle consonanti che precedono le vocali cadute.

Consonantismo

Senza dilungarci in un esame dettagliato del consonantismo, si può subito affermare che il piemontese presenta alcuni suoni del tutto particolari come lo sono quelli che il sistema grafico suole rappresentare con S-C et N-. Il primo, S-C, è un suono composto che corrisponde alla pronuncia dei primi fonemi di sci e di ciao. In genere non si trova nelle lingue romanze ufficiali. Questo suono piemontese si realizza in corrispondenza di voci germaniche che iniziavano con il digramma SL o delle voci latine che iniziano con EXCL-. Esempi: sliht> s-cèt…, exclaudere>s-ciòde, exclamare>s-ciamé, sclavu>s-ciav,… In francese et in toscano, questi gruppi si sono svolti in modo differente (fr. éclore, esclave; it. schiudere, esclamare, schiavo…) e lo stesso capita per le altre lingue romanze ufficiali (sp. esclavo, esclamar; port. escravo, esclamar; rom. sclav, sclavaj)20.

Come già detto, il suono notato S-C non esiste in alcuna delle lingue romanze ufficiali e per trovarne uno simile bisogna pensare al russo (es. пращай, щи; it. addio, minestra di cavoli). A proposito del russo sarebbe bene ricordare che esso possiede anche un suono molto vicino a quello della E mediana tonica. Si pensi a быстро (it. in fretta) da cui ha preso origine il termine bistrot. Del tutto particolare è anche il suono che la grafia piemontese rappresenta con il segno N- e che i linguisti chiamano N velare o faucale. Per essere precisi si deve ricordare che il suono della N faucale non esiste in tutte le varietà pedemontane e si realizza solo quando questa N intervocalica segue una vocale tonica. Esempi: ran-a, lun-a, pien-a, fin-a, cun-i…21 Se infatti l’accento dovesse spostarsi, allora la N perderebbe il suono faucale. Esempi: rané, ranòt, lunari, lunàtich, pienòt, finëssa…; i ven-o, i vnoma22.

A proposito della N, bisogna dire che, in fine di parola, questa consonante piemontese suona in modo diverso dalle corrispondenti francesi e toscane. Per rendersene conto si pensi alla pronuncia di lemmi quali un, matin, sòn, fin (piem)…; un, matin, son, fin (fr.); un, mattin, son, fin (tosc.) che pur sono omografi. Innanzitutto la N piemontese non nasalizza la vocale che la precede, come accade in francese, ma ha un suono più nasale della corrispondente toscana e tale differenza sarebbe molto percettibile se dei parlanti naturali delle tre lingue considerate pronunciassero i lemmi appena notati. Un’altra particolarità del consonantismo piemontese è dovuta al fatto che non conosce consonanti doppie. Eccettuato il caso del digramma SS che rappresenta il suono della S sorda (ex.rossa, possa, dossa…) e delle consonanti che seguono la Ë che si realizza soprattutto davanti a un nesso consonantico forte, il piemontese non conosce consonanti doppie. Si pensi ai casi seguenti:

piemontese francese italiano
imòbil immobile immobile
ilusion illusion illusione
amëtte admettre ammettere
ciapé attraper acchiappare

In altre occasioni l’individualità del piemontese spunta proprio là dove sembra avvicinarsi a una delle due lingue considerate. Si prenda per esempio il caso della L latina posta tra la vocale A ed una consonante dentale. In questo caso il piemontese tiene bene il suo posto tra il toscano e il francese. Infatti, se il toscano conserva la L latina, il piemontese la vocalizza in U, ma questo uono non si fonde con quello della A come capita per il dittongo originale latino AU o come capita in francese dove al segno AU corrisponde il suono /o/.

latino francese piemontese italiano
alteru autre aut(r) altro
alto haut aut alto
saltu saut saut salto
falsu faux fauss falso

Anche in questo caso il piemontese si distingue dalle altre lingue romanze considerate. Si pensi infatti al portoghese (outro, alto, salto, falso), allo spagnolo (otro, alto, salto, falso) e al rumeno (autru, înalt, calt, fals). La particolarità del consonantismo piemontese si potrebbe ancora notare da altri fenomeni come per esempio l’evoluzione del suono germanico /W/ di lemmi quali *wajdanian e wajgaru23. Infatti se il piemontese (vagné, vaire) è rimasto più fedele all’originale, il francese e e il toscano presentano suoni velari (gagner, guère; tosc. Guagagnare, guari). Un altro fenomeno caratteristico del piemontese à la lenizione delle sorde intervocaliche comune in francese piuttosto raro in toscano.

Articoli determinativi

Pensando che gli esempi riportati siano sufficienti a testimoniare la particolarità del consonantismo piemontese, è giunto il momento di passare all’esame di alcune caratteristiche morfologiche. Come fatto per la fonologia, anche qui si sceglieranno pochi elementi che però presentano una frequenza d’uso elevatissima, come appunto accade per l’articolo determinativo e per i pronomi personali.

Pur derivando dalle stesse forme latine, cioè dagli aggettivi dimostrativi ille, illa, illud; illi, illae… e pur essendo forme atone che svolgono la medesima funzione attualizzante della parte del discorso che precedono, non si può dire che nelle varie parlate romanze, soprattutto al maschile, questi articoli abbiano avuto esiti simili24. E lo schema seguente ce lo conferma:

Articoli determinativi
  singolare plurale
  maschile femminile maschile femminile
portoghese o a os as
spagnolo le la los las
francese le, l’ la, l’ les les
piemontese ël, ‘l, lë, l’ la, l’ Ij, jë, j’ le, j’
toscano il, lo, l’ la, l’ i, gli le
roumeno -ul -a -i -le

Per quanto le forme del femminile singolare siano quasi le stesse in tutte le lingue, penso che nessuno avrebbe il coraggio di vedere in questo caso l’influenza di un sistema linguistico sull’altro.

E lo stesso si dovrebbe dire per il plurale dove, accanto a LE, che si usa davanti a nomi femminili che iniziano per consonante, il piemontese presenta j’ che si usa davanti a parole femminili che iniziano për vocale (esempi: le ca, le stèile, j’amise, j’euvre…).

Quello che dovrebbe essere sottolineato è invece il fatto che il piemontese presenta un numero di forme superiore a quello degli altri idiomi esaminati e ciò non tanto per ragioni di fonosintassi, che pure è molto sviluppata in questa lingua, ma soprattutto per ragioni semantiche.

Infatti, dato che con la caduta delle vocali finali molti lemmi hanno una sola forma per il singolare ed il plurale, in parecchi casi l’articolo piemontese viene ad assumere funzioni diacritiche per distinguere le due forme. A questo proposito si vedano appunto le coppie seguenti, in cui il primo nome è al singolare ed il secondo al plurale: l’amis, j’amis; lë studi, jë studi; ël sagrin, ij sagrin; l’erbo, j’erbo; la gent, le gent…25 Questo fenomeno si verifica di rado in italiano, dove il plurale è espresso in modo esplicito senza dover ricorrere all’ausilio dell’articolo26.

Essendo la S del plurale muta, anche l’articolo francese è spesso chiamato a svolgere una funzione diacritica simile a quella segnalata per il piemontese (es. l’ami – les amis, l’étude – les études, le chagrin – les chagrins). Nonostante tale similitudine, neanche in questo caso si può dire che ci sia una influenza di una lingua sull’altra perché, per quanto riguarda la formazione del plurale, il piemontese segue la maggioranza delle parlate romanze orientali che lo modellano sul nominativo latino, mentre il francese si rifà all’accusativo, come appunto avviene tra gli idiomi della Romània occidentale.

Si pensi a:

romeno capra caprele foaia foaiele
toscano la capra le capre la foglia le foglie
piemontese la crava le crave la feuja le feuje
francese la chèvre les chèvres la feuille les feuilles
spagnolo la cabra las cabras la hoja las hojas
portoghese a cabra as cabras a folha as folhas

Dunque se il plurale di certi nomi piemontesi, soprattutto maschili, sembra avvicinarsi ai termini francesi corrispondenti, ciò è dovuto non al fatto che le due lingue sono soggette alle stesse regole morfologiche, ma piuttosto alla caduta di alcune vocali finali, fenomeno che si potrebbe attribuire ad un sostrato comune. Va comunque ricordato che, per quanto concerne la caduta delle vocali finali, non sempre il piemontese supera il francese come s’è visto prima. Infatti nelle parlate pedemontane si conserva la A finale atona latina e, di conseguenza, anche la E del plurale. Come vocali finali di appoggio, in corrispondenza della E muta francese, in piemontese si può poi anche trovare una -i o una -o. Si pensi a: prinsi, prinsipi…, termo, aso… (fr. prince, principe… terme, âne…).

Pronomi personali: soggetto, verbali e interrogativi

Anche per quanto concerne i pronomi personali soggetto, il piemontese si distingue dalle altre lingue romanze ufficiali. Tanto per cominciare, va detto che quelli delle prime due persone singolari mi e ti non derivano dal nominativo latino, come avviene nelle altre lingue considerate. Alla terza persona singolare, invece delle forme derivate da ille, illa abbiamo chiel, chila che sembrano derivare da eccu ille/atque ille… Il pronome di seconda persona plurale, vojauti, deriva da vos alteri come avviene in ispagnolo, e così si potrebbe dire di nojauti che però si trova spesso anche sotto la forma di noi (che suona proprio come il manzoniano nui)27. Il pronome di terza persona plurale è lor, simile al loro toscano che da secoli è in competizione con essi, esse28.

Pronomi personali soggetto
roumeno eu tu el ea noi voi éi ele
toscano io tu egli/lui essa/lei noi voi essi esse
piemontese mi ti chiel chila noi vojauti lor lor
francese je tu il elle nous vous ils elles
spagnolo yo tu él ella nosotros vosotros ellos ellas
portoghese eu tu êle êla nờs vờs êles êlas

Pronomi verbali

Alle particolarità appena segnalate bisogna poi aggiungere che i verbi piemontesi sono quasi sempre preceduti anche da un’altra forma pronominale, chiamata appunto pronome verbale. Questi pronomi verbali sono: i, it, a, i , i, a29.

I pronomi verbali precedono il verbo e sono a loro volta preceduti dai pronomi personali soggetto, se questi ultimi sono espressi. Tanto per avere un’idea del loro uso si veda il presente indicativo di trové (it.trovare): (mi) i treuvo, (ti) it treuve, (chiel/chila) a treuva, (noi) i trovoma, (vojauti) i treuve, (lor) a treuvo30.

Pronomi interrogativi

Parlando dei pronomi personali non bisognerebbe dimenticare quelli interrogativi [ -ne, -to, -lo/-la, -ne, -ne, -ne], un tempo molto comuni ed ora sempre meno usati nel torinese. Detti pronomi interrogativi si aggiungono encliticamente alla forma verbale come nelle frasi riportate qui di seguito: veusto ch’it fasa ‘n cafè? Còs a voralo a st’ora31.

Pronomi personali complemento – forma atona

Passando dai pronomi personali soggetto a quelli complemento di forma atona, si deve subito notare che in piemontese questi hanno addirittura due forme. La prima [-m, -t, (lo, la), -j, -n, -v, -j] precede il verbo e si aggiunge encliticamente ai pronomi verbali. La seconda forma: -me, -te, -lo, – la, -je, -ne, -ve, -je, anch’essa clitica, però si pospone al verbo32. Come esempi di quanto detto si pensi a:

  • a scriv (it. scrive; fr. il écrit);
  • am ëscriv (it. mi scrive, fr. il m’écrit);
  • a l’ha scrivume (it. mi ha scritto, fr. il m’a écrit);
  • a dovìa scrivme prèst (it. doveva scrivermi presto, fr. il devait m’écrire bientôt);
  • it parlo dòp (it. ti parlo dopo; fr. je te parle après);
  • i l’hai voursuje parlé sùbit (it. ho voluto parlargli subito, fr. j’ai voulu lui parler tout de suite).

Se in francese la forma atona del pronome non può mai seguire il verbo, in toscano le particelle pronominali atone (mi, ti…) possono precedere o, in determinati casi, seguire il verbo, ma a differenza del piemontese hanno sempre la medesima forma.

Per quanto concerne la posizione dei pronomi atoni, bisogna poi dire che il piemontese presenta ancora un’altra particolarità rispetto all’italiano e a tutte le altre lingue romanze ufficiali. Essa consiste appunto nel fatto che questi pronomi si pospongono al participio passato anche quando esso è usato con un ausiliare33. Si pensi per esempio a: a l’ha vardala bin ant j’euj; (fr. il l’a regardée dans les yeux; it. l’ha guardata bene negli occhi); a l’ha parlaje ciair (il lui parlé clair, gli/Le ha parlato chiaro); quand ch’a son dësvijasse (quand ils se sont réveillés; quando si sono svegliati).

Participio passato

La posposizione del pronome personale complemento diretto al participio passato ha come conseguenza il fatto che in piemontese questa forma non si accorda come in italiano o in francese. Si pensi a: i l’hai vistlo, i l’hai vistla, i l’hai vistje (fr. je l’ai vu, je l’ai vue; je les ai vus/vues/ it. l’ho visto, l’ho vista, li ho visti/le ho viste).

Parlando del participio passato si potrebbe ancora dire che parecchi verbi piemontesi ne hanno due forme, una regolare (es. scrivù, maledì, coregiù…) e l’altra irregolare come in latino (scrit, maledet, coret…)34. Non si tratta di una ridondanza perché il comportamento dei parlanti dimostra che la prima forma, quella regolare, è usata con l’ausiliare avere, mentre la seconda, quella irregolare è accompagnata dal verbo essere o ha il valore di aggettivo. Esempi: a l’ha coregiù l’esercissi, l’esercissi a l’é coret, j’esercissi coret a l’ha butaje da na banda.

Lessico

Le prove che si potrebbero portare per dimostrare l’identità morfologica del piemontese e la sua originalità rispetto all’italiano ed al francese, le lingue forti con cui è in contatto da secoli, sono ancora molti, ma penso che sia giunto il momento di passare al lessico.

Prima di toccare questo nuovo tema vorrei far presente che, ai giorni nostri, la globalizzazione e la potenza illimitata dei media fanno sì che, in un certo qual modo, tutte le lingue siano soggette alla pressione dell’inglese. E così si assiste ad una convergenza dei codici delle varie lingue. Mentre i neologismi indicanti nuovi tipi di rapporti od oggetti prima sconosciuti si ottengono dall’inglese, che insieme con gli oggetti esporta anche i nomi, molti altri termini, soprattutto tecnici, si rifanno a lemmi presi dal latino o dal greco35.

Quindi, le caratteristiche del lessico di una lingua non si trovano nel vocabolario tecnico o nei neologismi, che sono più o meno gli stessi in tutte le parlate, ma piuttosto in quello che potremmo chiamare il vocabolario tradizionale. Con questo termine intendo soprattutto il vocabolario tematico che, in quanto tale, rappresenta meglio l’universo concettuale di una determinata cultura. Oltre che nel vocabolario tematico si potrebbe cercare l’identità di una lingua anche nelle sue espressioni idiomatiche che, grazie all’associazione tra pensiero e parola, parole e cose, cose e significati sono tipiche di un determinato modo di pensare e di interpretare la realtà.

Perciò se si cerca l’originalità di un lessico, più che nel vocabolario tematico moderno come potrebbe essere per esempio quello relativo ai mezzi di trasporto, la si dovrebbe cercare in campi semantici più tradizionali come quelli che riguardano gli oggetti della casa, i mestieri, l’ambiente, la famiglia… oppure anche nelle espressioni idiomatiche che abbondano in tutte le parlate. Non va però dimenticato che, talvolta, l’identità di una lingua rispetto ad un’altra si vede anche dalla presenza di unità lessicali simili, ma associate a valori diversi. Si pensi per esempio a un termine quale blagueur che in francese ha un valore corrispondente all’italiano “burlone”, mentre
in piemontese blagueur significa “vanitoso, spaccone”36.

Dunque, se tanto per cominciare ci si limita ai nomi degli animali e, senza andare a cercare termini troppo esotici, ci si sofferma a quelli che vivono nella zona in cui si parla piemontese si troveranno termini quali: l’ajeul, l’ania, l’aragn, l’arsigneul, l’aso, l’avija, ël babi, ël bardòt, ël bèro, ël biro, ël boch, ël bocin, la bòja, ël borich, ël cioch, ël cornajass, ël crin, la crivela, l’erlo, la fèja, la gata, ël giari, ij givo, la lusentola, l’òja, l’osel, ël përro, ël pito, ël quajass, la ratavolòira, la róndola, la sioss, la sumia, ël taboj37, e sono sicuro che una persona che parli una o più lingue romanze, ma che non conosca il piemontese, avrà parecchie difficoltà ad identificarli tutti.

Le stesse considerazioni si potrebbero fare per il nome di alcuni mestieri tradizionali come: l’artajor, ël calié, ël camré, ël cartoné, ël foghin, ël fré, ël magnin, ël marghé, ël maslé, ël masoé, ël massé, ël meidabòsch, ël mërcandin, lë mnisé, ël molita, la monia, la pentnòira, ël pompista, ël prèive, ël trabucant…38

E se ora questo ipotetico personaggio capisse i lemmi appena presentati penso che avrebbe ancora maggiori difficoltà a tradurre nella sua lingua forte, qualunque essa sia, le espressioni indicate qui di seguito che appunto vertono sui nomi di alcuni degli animali appena segnalati: fé l’erlo; ambaroné le fèje; s’a-i fusso nen tante feje a-i sarìo nen tanti luv; la fèja a-j fà tant ch’a la mangia ‘l luv come ch’a la scana ‘l maslé; quand ch’ij giari a portavo ij sòco; la meisin-a dij giari; avèj ij givo; fé rije ij givo; mars come n’aniòt; conòsse j’aso da j’arsigneuj; esse grass come n’aragn; ross come un biro; giré parèj ëd na ratavolòira; l’ora dle ratevolòire; fé vni le bòje; esse al pian dij babi; mangé ‘l babi; dé/pijé ‘l crin; grass come un crin; minca na sumia a treuva bej ij sò sumiòt39.

Se si volesse ancora insistere a cercare delle espressioni tipicamente piemontesi, potrei citarne alcune tratte dalla massa rilevata in alcuni romanzi di Luigi Pietracqua e la cui traduzione in altre lingue darebbe ancora maggiori difficoltà. Tra queste si potrebbe ricordare: bagneje ‘l nas a cheidun; neuv ëd trinca; esse un Giaco-fomna; fessé carié; andesse a fé scrive; marcé për garela; as tacon-a pì nen; mangé ‘d pan sùit; arviré ij dent a cheidun; fé ‘l tòni; fé ‘d materie; dì ‘l bin; sfacià a l’ùltima mira; ciloché ant ël mani; pijé na sumia; flambé ‘l bòcc; guardé j’arsivòli; taché sech; andesse a stërmé an cròta; dé ‘l bleu; avèj ij dent anciavà; sofié sota ‘l nas a cheidun…40

Certo non è impossibile tradurle in altre lingue, ma per farlo bisognerebbe ricorrere ad immagini del tutto differenti da quelle appena segnalate. E questo costituisce appunto un’altra conferma che, per quanto concerne il lessico e la semantica, il piemontese ha una sua identità ben precisa perché rappresenta l’espressione di una cultura del tutto particolare. Infatti un sistema linguistico non è solo un insieme di suoni e di parole, ma piuttosto un modo di concepire e di rappresentare la realtà e le proprie esperienze. In altre parole la lingua rappresenta la memoria e la cultura di un popolo.

Conclusione

Pur derivando dal latino come il francese e l’italiano, pur essendo a contatto con queste due lingue forti e malgrado il fatto che al giorno d’oggi si assista ad una massiccia pressione dell’inglese su tutti gli altri idiomi del mondo, fenomeno che porta ad una convergenza dei codici delle varie lingue, bisogna pur ammettere che il piemontese ha ancora una sua identità ben precisa.

Un’identità che le deriva dalla cultura e dalle esperienze delle popolazioni che da sempre hanno vissuto sul suolo pedemontano. Un’identità che, come s’è visto, è risultata evidente da un esame contrastivo con le lingue italiana e francese e che neanche la forte pressione di queste due lingue è riuscita a scalfire. Purtroppo le statistiche più recenti ci dicono che, come le altre lingue minoritarie e regionali, non solo il piemontese è in forte regresso, ma si teme addirittura per la sua sopravvivenza41.

E se così fosse non sarebbe affatto giusto ricordare la parlata piemontese con le parole scritte da un pur acuto osservatore quale era Michel de Montaigne che di passaggio a Torino, nel 1581, notò: “La langue vulgaire n’a presque de la langue italienne que la pronociation, et n’est au fond que composée que de nos propres mots”.

Note

  1. B. Villata, “L’avnì dle lenghe regionaj e dël piemontèis an particolar” in At – VII Rëscontr antërnassional dë studi an sla lenga e la literatura piemontèisa, Famija Albèisa, Alba, 1990, pp. 263-282.
  2. Alla fine del capitolo XV del primo libro del “De Vulgari eloquentia” troviamo “Cumque de residuis in extremis Ytale civitatibus neminem dubitare pendamus (et si quis dubitat, illum nulla nostra solutione dignamur), parum restat in nostra discussione dicendum. Quare cribellum cupientes deponenre, ut residentiam cito visamus, dicimus Tridentum, atque Taurinum nec non Alexandriam, civitates metis Ytaliae in tantum sedere propinquas, quod puras nequeunt habere loquelas: in tantum, quod si etiam quod turpissimum habent vulgare, haberent pulcerrimum, propter aliorum comixtionem esse vere latium negaremus. Quare si latium illustre venamur, quod venamur in illis inveniri non potest.” Dante Opere minori, Rizzoli, Milano, 1960, p.561.
  3. Foerster, W. “Galloitalische Predigten”, Romanischen Studien 4, (1879/80. pp. 1-92; Ugolini, F. Testi antichi italiani, Chiantore, Torino, 1942. Per quanto concerne le più recenti discussioni sulla lingua dei Sermoni, si vedano gli AT del VII e VIII Rëscontr antërnassional dë studi an sla lenga e la literatura piemontèisa, Famija Albèisa, Alba, 1990 e 1991.
  4. B. Villata, “Ij Sermon Subalpin e la lenga d’oe”, ne l’arvista dl’academia VI oppure I Sermoni Subalpini e la lingua d’oe”, Lòsna & Tron, Montréal, 1997.
  5. F. Brunot. Histoire de la langue française, Paris, 1903, p. 142.
  6. A.Manzoni, “Marzo 1821”, in Ambrosoli, E. Letteratura, civiltà problemi, Le Monnier, Firenze, vol. II, p. 130.
  7. Il primo passo, forse il più importante, nel riconoscere il ruolo delle lingue vernacolari ai fini dell’istruzione fu il parere espresso dagli esperti dell’UNESCO nel famoso rapporto del 1951. Si veda a questo proposito “The use of vernacular languages in education – The experts report of the Unesco meeting specialists, 1951” in Reading in the Sociology of Language, Mouton, The Hague, 1968
  8. B.Villata, Bilinguisme et problématique des langues ethniques CIRB, Université Laval, Québec, 1985.
  9. B. Villata “L’avnì dle lenghe regionaj…”, cit., passim.
  10. B. Villata, “Vocalism e consonantism piemontèis” ne l’arvista dl’academia, II Montréal, Lòsna & Tron, 1994, pp. 78-180.
  11. B. Biondelli, Saggio sui dialetti galo-italici, Forni, Bologna, 1853.
  12. A. Rossetti, Historia limbii romîne, Editura Sţinţifica, Bucureşti, 1964, vol. I
  13. Si pensi a: lat. bove>fr.boeuf, pi. beu; lat. oculu>fr. oeil, pi. Euj; lat.>iocu fr. jeu, pi. Gieugh
  14. E. Bourciez, Précis de phonétique française, Klinksieck, Paris, 1967
  15. B. Villata, “Vocalism e consonatism…”, op. Cit. pp. 105 e 109
  16. Ibidem
  17. Va detto che tali esiti non si ritrovano in tutte le parlate pedemontane. Si pensi al monferrino dove il digramma CT dà un suono palatale della c. E così da nocte si ha neucc a Cravanzana nell’Alta Langa e nòcc a Masserano… Per maggiori particolari si veda: B. Villata, “Vocalism e consonantism pedemontan” ne L’arvista dl’academia, V, Montreal 1996, pp. 109-111.
  18. B. Villata, “Vocalism e consonantism…” op. cit. p. 97 e “Vocalism e consoantism pedemontan…”, op. cit. pp. 122-125.
  19. B. Villata, “Vocalism e consonantism…” op. cit. pp. 115-121
  20. B. Villata’ “Vocalism e consonantism…” op. cit. p. 167. Ora il suono S-C appare anche in alcune parole dotte italiane come scervellarsi, scervellato…
  21. Idem, p.170-171
  22. B. Villata, Ij verb piemontèis, Lòsna & Tron, Montréal, 1994, pp. 45 e 92
  23. B. Villata “Vocalism e consonantis….” op. cit. p. 177
  24. B. Villata, La lenga piemontèisa, Lòsna & Tron, Montréal, 1995, pp. 18-22.
  25. Idem, p. 41
  26. B, Villata, Le Mille e una regola (Grammatica italiana ragionata e comparata), Lòsna & Tron, Montréal, 1992
  27. A. Manzoni, “Il cinque maggio”, in Letteratura e civiltà…, op. cit. p.135 v. 32
  28. Le forme dei pronomi di terza persona singolare variano da una parlata pedemontana all’altra. Per esempio nel biellese si usa cël/cëlla a Crea chil/chila, a Cravanzana nell’Alta Langa chial/chila. Vedasi anche B. Villata “Vocalism e consonantism pedemontan”, cit., pp 82-83.
  29. B. Villata, “La lenga piemontèisa”, cit. pp. 95-101.
  30. B. Villata, “Ij verb piemontèis “, op. cit. p. 96
  31. Ibidem, p. 14
  32. B. Villata, La lenga piemontèisa, cit. pp. 101-107, e 110-111
  33. Ibidem, cit. p. 102
  34. B. Villata, “Ij verb piemontèis”, cit. pp. 50-51
  35. B. Villata, L’Italiano a contatto con il francese e con l’inglese, Monfort & Villeroy, Montréal, 1990, passim e B. Villata “Propòsta d’un vocabolari ‘d base dël piemontèis”, in AT VIII Rëscontr Antërnassional dë Studi an sla Lenga e la Literatura Piemontèisa, Famija Albèisa, Alba, 1994, p. 267.
  36. Si veda l’articolo “Proposta…” appena citato.
  37. I corrispondenti italiani dei lemmi citati sono: ramarro, anatra, ragno, usignolo, asino, ape, bardotto, agnello, tacchino, caprone, vitellino, verme, gufo, cornacchia, maiale, falchetto, smergo, pecora, bruco, topo, maggiolino, luccio, aquila, uccello, tacchino, cavedano, pipistrello, rondine, chioccia, scimmia, cagnolino.
  38. In italiano: pizzicagnolo, calzolaio, cameriere, carrettiere, operaio addetto alle mine, fabbro, calderaio, lattaio, macellaio, mezzadro, massaro, falegname, merciaio, operatore ecologico, arrotino, suora, pettinatrice, pompiere, prete, muratore. In italiano: fare lo spavaldo; accingersi a partire; se non ci fossero tante pecore non ci sarebbero tanti lupi: per la pecora non c’è alcuna differenza che la mangi il lupo o che la scanni il macellaio: quando Berta filava; veleno; avere il nervoso; far ridere i polli; bagnato come un pulcino; saper distinguere; essere magrissimo; paonazzo; girare come un pipistrello; all’imbrunire; essere stucchevole; essere mal messi; inghittire un boccone amaro; rifiutarela mano di un pretendente/vedersi rifiutare una domanda di matrimonio; grasso come un maiale; ogni scimmia trova belle le sue scimmiette.
  39. B. Villata, “Com as dis an bon piemontèis: espression idiomàtiche ant ij romans ëd Luis Pietracqua” in AT – X Rëscontr Antërnassional dë Studi an sla Lenga e Literatura Piemontèisa, Quinsnè, 1993, pp. 55-65. Per chi volesse controllare il significato delle varie voci consigliamo i dizionari seguenti: Brero, C. Vocabolario piemontese – italiano, Piemonte in bancarella, Torino, 1982; Gribaudo, G. Ël Neuv Gribàud – Dissionari Piemontèis, Editip, Torino, 1963.
  40. B. Villata: “L’avnì dle lenghe regionaj…”, op. cit. pp. 262-281, passim
  41. M. Montaigne, Journal de Voyage en Italie (par la Suisse e l’Allemagne en 1580 et 1581, Garnier, Paris, 1955 p. 233.

Bibliografia

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Villata, B. La lenga piemontèisa (fonologìa, morfologìa, sintassi), Lòsna & Tron, Montreal, 1995.

L’arvista dl’academia, nr. II, 1994 e nr. V, 1996.

1 “Vocalism e consonantism…”, cit. p. 97 et “Vocalism e consonantism pedemontan…” cit. pp. 122-125.

2 “Vocalism e consonantism…”, cit. pp. 115-121

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